lunedì 11 aprile 2011

SULLE RECENTI SOLLEVAZIONI NEI PAESI ARABI- di Antonio Casolaro


Buona parte della stampa occidentale rispetto a quanto è accaduto e sta accadendo nei paesi arabi è orientata a concludere che i sommovimenti in atto hanno una origine ed una connotazione democratica.

Se ci soffermiamo a guardare quello che è avvenuto e cioè alle manifestazioni di piazza, alle richieste dei popoli contro i dittatori che da 40 anni, come alcuni, governavano i loro paesi forse quella sensazione è anche vera.

E’ chiaro però che una valutazione politica non può fermarsi alla fotografia unidimensionale di quanto è successo e succede, come nel caso del mondo arabo, ma ha bisogno di supporti ed analisi più profonde ed appropriate.

Per esempio rispetto alla cd rivoluzione dei “glicini” in Tunisia si può dire che l’evento scatenante sia stato il suicidio avvenuto il 17 dicembre dell’anno scorso a Sidi Bouzid del giovane Mohamed Bouazizi, il quale si è dato fuoco in piazza dopo il divieto della polizia a vendere frutta e verdura come ambulante.

La Tunisia è un paese molto giovane con una popolazione di circa dieci milioni e mezzo di abitanti. Secondo l’Atlante De Agostini ed.2011 quasi il 65% della popolazione tunisina ha un’età che non supera i 29 anni. Notevoli sono i flussi migratori diretti specialmente in Francia ed in Italia dove risiedono al 31/12/2009, secondo il Ministero degli affari esteri, rispettivamente 598.504 e 152.721 tunisini.

Dal punto di vista economico al PIL l’agricoltura contribuisce per il 16%, l’industria per il 28,5% e i servizi per il 55%.

Un dato importante, che ha notevolmente inciso sui moti che sono scoppiati a partire, come già è stato fatto presente prima, dal mese di dicembre 2010 e che si sono estesi per tutti i mesi di gennaio e febbraio 2011 è quello che la Tunisia è quasi privo di petrolio, A ciò va aggiunto che molti posti di lavoro dipendono da aziende straniere e che i salari sono molto bassi. Questo problema si verifica nella maggior parte dei paesi del “terzo mondo”, i quali in realtà sono stati trattati alla stregua di neo-colonie.

La Tunisia non ha mai sviluppato una economia propria . Le relazioni economiche tra le diverse parti del Nord Africa sono state distrutte a ben vedere dalla colonizzazione di fine ‘800 e dal neocolonialismo successivo all’indipendenza. In realtà tutti gli investimenti escono dal paese e nulla rimane. Il sistema economico imposto dall’imperialismo è basato sullo sfruttamento e l’impoverimento del popolo, Si può dire che la Tunisia sia un paese ricco ma con un popolo povero. Proprio rispetto a questa ultima affermazione andrebbero valutati quali sono i benefici che ricavano i tunisini dai ricavi provenienti per esempio dal fosfato di cui il paese è ricchissimo, occupando il 4° posto dei paesi produttori al mondo, o se questi ricavi siano confiscati da interessi stranieri. In ordine a ciò dall’inizio del 2008 gli abitanti del bacino minerario di Gafsa, vera e propria roccaforte operaia, hanno costruito la propria storia con una rivolta compatta e orgogliosa. L’esplosione della popolazione di Gafsa è la prova che innanzitutto e soprattutto gli interessi salvaguardati sono quelli stranieri.

La protesta operaia e dei loro familiari della regione di Gafsa è stata la conseguenza da una parte che la Compagnia dei fosfati di Gafsa, la CPG ha adottato un piano di ristrutturazione – tutto il mondo è paese ! – che ha voluto dire la riduzione del 75% degli effettivi della compagnia: da undicimila a cinquemila dipendenti e dall’altra che la regione mineraria pur producendo ricchezza non aveva alcuna infrastruttura salvo una linea ferroviaria costruita unicamente per il trasporto delle merci, insieme al fatto che la disoccupazione colpiva e colpisce il 50% dei giovani laureati e tecnici superiori. Questo dato è un tasso su scala nazionale, il che vuol dire che è ancora superiore nelle regioni considerate “di sviluppo prioritario”, tra cui vi sono la maggior parte delle regioni non costiere.

Come già osservato in precedenza la Tunisia è un paese dall’età media molto giovane. A ciò va aggiunto che il 30% dei giovani in età di fare studi superiori frequenta l’università e che il 30% dell’intera popolazione risulta regolarmente connessa ad Internet ( dati assunti da Le Monde Diplomatique di marzo 2011 pag.13).

E sono stati proprio i giovani che il 5 gennaio 2008 hanno dato inizio al movimento di lotta e di protesta nella città di Redeyef che dista 60 Km da Gafsa e 22 dalla frontiera con l’Algeria, occupando la sede regionale dell’Unione generale tunisina del lavoro (UGTT) perché i risultati del concorso per le assunzioni al CPG erano stati falsati da favoritismi, nonché di aver selezionato dei candidati raccomandati da notabili e dirigenti locali. I giovani si sono uniti alle vedove dei minatori alle loro famiglie ed ai licenziati. La prima decisione assunta è stata quella di montare delle tende dinanzi alla sede della Sotto-Prefettura di Redeyef. L’adesione di tanta popolazione ha contributo ad estendere il movimento ed a renderlo generale e permanente. Per quanto il potere repressivo di Zin el Abidin Ben Ali fosse immediatamente intervenuto per stroncare sul nascere il movimento ha raggiunto e coinvolto città come Metlaoui, Mdhila e Mourales.

Va considerato pure che il potere repressivo di Ben Ali, per quanto abbia tentato di stroncare sul nascere il movimento, vietando per esempio la zona ai giornalisti stranieri, non ha potuto evitare che una squadra della Televisione “pirata” Al Hiwar Attounisi (Il Dialogo tunisino) sia riuscita a filmare le immagini della rivolta e a farla circolare. Le immagini sono state diffuse via satellite sulla rete italiana Arcoiris e sull’emittente francese France 3.

La crisi del 2008 e l’incidere delle scelte neoliberiste hanno determinato un forte aumento della disoccupazione che ha investito la giovane popolazione tunisina. Alla disoccupazione si è aggiunto l’aumento dei generi alimentari.

Rispetto agli aumenti dei prezzi dei beni alimentari va detto che già nell’aprile 2008 emerse per esempio che le quotazioni del mais e del riso avevano raggiunto quotazioni record e la Banca mondiale a commento di quanto stava accadendo concludeva che nel mondo era prevedibile che ci fossero state delle tensioni sociali per la fame.

Il fenomeno dei rincari dei beni alimentari non appariva transitorio, anzi la stessa Banca Mondiale, in un documento predisposto per gli incontri fissati nel fine settimana del 7/12 aprile 2008 a Washington tra le maggiori istituzioni finanziarie mondiali, avvertiva che i prezzi dei generi alimentari si sarebbero mantenuti alti ed in tendenza in aumento per tutto il 2008 e il 2009.

Da una lettura più attenta del documento predisposto dalla BM si apprendeva che la maggior parte dei prezzi dei prodotti alimentari, rispetto alle rilevazioni del 2004, tendevano a rincarare e ciò fino al 2015.

Secondo le Nazioni Unite i rincari però avevano iniziato la loro corsa già dal 2002, raggiungendo alla fine del 2008 la media complessiva del 65%, con un 35% nel solo anno 2008.

Robert Zoellick - presidente dal 1° luglio 2007 della BM – invitava la comunità internazionale a mobilitarsi per intervenire in modo concreto a favore delle popolazioni dei paesi che più erano esposte per il rincaro dei prezzi dei beni alimentari.
Le raccomandazioni di Zoellick non sembra che abbiano come dire sortito risultati positivi se è vero che ancora circa un miliardo di persone vive in condizioni di estrema povertà.

D’altra parte gli aumenti sono continuati così come sono aumentate le proteste e le rivolte per la fame. Infatti manifestazioni e disordini conseguenti ai rincari sono scoppiati in Africa, ma anche in America centrale e meridionale. Chi non ricorda a tale riguardo “la rivolta degli affamati” di Haiti. E la Fao attraverso il direttore Jaques Diouf aveva avvertito che era probabile lo sviluppo di disordini specialmente in quei paesi dove il 50-60% del reddito dei cittadini era destinato all’acquisto di cibo.

Appare chiaro a questo punto che le rivolte di massa, che hanno investito a partire come abbiamo visto dalla Tunisia e che si sono propagate in buona parte dei paesi arabi, segnando l’inizio del risveglio di oltre un miliardo di donne e uomini stanche ormai di vivere in funzione delle politiche e degli interessi degli imperialisti, sono la conseguenza della crisi del neoliberismo a cominciare dal paese che ha imposto tale politica ossia gli Usa.

Prima di fare un accenno ai guasti profondi causati dal monetarismo introdotto appunto dalle teorie e dalle pratiche politiche americane, appare giusto soffermarsi su di un aspetto poco trattato nelle valutazioni che sono state fatte sulle origini e sulle modalità di propagazione dei contenuti delle rivolte.

E’ stato detto che lo strumento divulgativo più usato dai giovani tunisini, ma anche dai giovani egiziani sia stato Internet. Che le reti interconnesse abbiano avuto un ruolo centrale per la diffusione e lo scambio delle notizie sugli eventi in atto nei vari territori del mediterraneo meridionale, così come in medio oriente, è un fatto inoppugnabile. Non a caso le prime misure assunte dai vari rais dei paesi in rivolta sono state quelle di bloccare gli accessi al principale mezzo di comunicazione di massa oggi esistente.

Riteniamo tuttavia che una scuola di educazione politica nei confronti specialmente dei popoli del magreb possa essere stata anche quella connessa alle rivolte delle banlieues parigine del 2005/2006. I sentimenti di disperazione diffusi, dipendenti dalla disoccupazione vasta ed intensa che preclude la possibilità d una esistenza “normale” paragonabile a quella della generazione precedente o della comunità nazionale – nel caso delle banlieues quella francese - abbiano inciso e nello stesso tempo costruito memoria. La “feccia” straniera che Sarkozy s’era inventato non era altro che la seconda o terza generazione di quegli immigrati che hanno fatto con le loro mani il capitalismo francese, lavorando nei cantieri e nelle fabbriche del paese.

E’ possibile leggere una continuità tra le esclusioni patite in Francia dai maghrebini con quelle della Tunisia soccombente e subordinata all’imperialismo francese e dei paesi europei nonché degli Usa? E’ possibile eccome.

E’ tempo di riprendere il discorso che individua nei riflessi della crisi e della globalizzazione quanto accaduto nel mondo arabo. Episodi quelli della crisi e della globalizzazione che hanno visto nell’Occidente il loro epicentro sia per quanto ha riguardato le scelte che hanno poi generato ed alimentato appunto i fenomeni in disamina. Ambedue gli eventi sono stati criticati dal “serafico” ministro dell’economia Tremonti, il quale in una sorta di novello dr.Jekyll e mr. Hyde si è distinto da una parte per la critica alla crisi ed alla globalizzazione e dall’altra per le decisioni intraprese come i tagli che hanno di fatto cancellato il welfare.

Gli Usa pur essendo stati all’origine della crisi del 2007 con lo scoppio della bolla dei subprime, hanno deciso di risolverla decidendo di portare i tassi d’interesse del denaro quasi a zero. Nello stesso tempo il Tesoro americano, attraverso il cosiddetto “quantitative easing” (letteralmente “alleggerimento quantitativo”) ha immesso una massa enorme di danaro nell’economia. Questa politica si è tradotta nell’acquisto di titoli del Tesoro per 600 miliardi di dollari da parte della Banca Centrale americana. A ciò va aggiunta la decisione di prorogare gli sgravi fiscali dell’epoca Bush per un importo di 800 miliardi di dollari.

Questa politica ha inciso sul Pil rilanciandolo fino al punto che nel IV trimestre del 2010 è aumentato del 3,2%. Nello stesso tempo i profitti delle imprese si sono incrementati del 35%, concorrendo a trascinare al rialzo le borse, specialmente Wall Street .

Il boom dei profitti e delle borse si è tradotto in una crescita drogata, la quale a ben vedere ha aggravato la crisi, generando un aumento del già gigantesco debito pubblico americano senza incidere minimamente sui livelli occupazionali.

Naturalmente data la interdipendenza che ormai lega le economie di tutto il mondo gli effetti del “quantitative easing”, manovra decisa dal governo Obama, si sono diffusi a livello mondiale a cominciare dall’aumento dell’inflazione quale prodotto della relazione tra aumento della liquidità e mercati finanziari internazionali.

Infatti lo spropositato aumento della liquidità derivata dalle operazioni accennate si è rivolta nelle attività speculative di borsa, che garantiscono profitti maggiori, anziché nelle attività produttive. Ciò anche perché l’industria manifatturiera americana rappresenta una quota del Pil sempre meno importante e soprattutto perché gli Usa non hanno nemmeno lontanamente risolto la sovrapproduzione che è alla base dello scoppio della crisi.

Ovviamente la speculazione sui contratti futures ha provocato un aumento straordinario di tutte le materie prime, molte delle quali, specialmente le cerealicole, hanno il loro centro di scambio mondiale proprio alla borsa di Chicago, ossia il centro della compravendita Usa delle materie prime. Il quantitative easing tra l’altro ha inciso sul deprezzamento del dollaro, mentre di converso ha causato l’apprezzamento delle monete di altri a cominciare dai paesi emergenti con notevolissimi danni sugli stessi.

E’ stato osservato che tra gennaio 2010 e gennaio 2011 le materie prime alimentari sono aumentate in media del 32%. Disaggregando i dati è emerso che il grano è aumentato del 62%, passando dai 177,5 dollari la tonnellata del II trimestre 2010 ai 326 dollari del gennaio scorso, mentre il frumento (riso, mais, orzo etc.) è aumentato sempre nello stesso periodo del 58,7%. Secondo la FAO se si raffrontano i prezzi 2009 con quelli di oggi l’aumento è stato del 160%.

E’ chiaro che gli aumenti dei prezzi delle materie prime alimentari hanno colpito maggiormente i paesi dove una quota notevole del reddito viene spesa per alimenti. In ordine a ciò mentre per esempio in Italia la spesa alimentare nel 2009, secondo la Cgia di Mestre, ha raggiunto il 17,5% del reddito, in Egitto viceversa rappresenta il 48,1%, in Vietnam il 65%, nello Sri Lanka il 64%, nel Madagascar il 66%, addirittura il 73% in Nigeria.

E’ evidente allora che a differenza di quanto è stato detto e diffuso attraverso i media internazionali, specialmente quelli occidentali, le esplosioni popolari e di massa, che a cominciare dalla Tunisia si sono avute nei paesi del Nord Africa ed in quelli del Medio Oriente e che ancora sono in corso non hanno riguardato come fenomeno principale la democratizzazione degli stessi. La democrazia ha rappresentato l’epifenomeno di una realtà oramai insopportabile.

La fame, la disoccupazione, il modello di sviluppo che si è affermato in questi paesi sono state le cause e le concause dei movimenti insurrezionali. Infatti se si leggono i dati Ocse si ricava che questi paesi hanno fatto registrare negli ultimi anni uno dei tassi di sviluppo maggiori del mondo. E’ evidente allora che i benefici della crescita, il boom economico senza diffusione del benessere ha aperto gli occhi alle popolazioni dei paesi del Nord Africa, dell’Egitto e quelli del medio oriente, le quali hanno verificato che la ricchezza da loro prodotta è andata solo alle imprese e alle banche straniere ed a ristrettissimi gruppi locali di rappresentanti dei capitali occidentali.

Il vero problema allora non è dipeso dal dispotismo, certo c’è stato anche quello, ma è venuto successivamente. Lo scatenamento è dipeso dall’esistenza di un sistema di rapporti economici ineguali a livello internazionale,

L’Egitto è il più popolato ed il più grande paese arabo. Secondo una stima riportata dall’Atlante De Agostini ed.2011 nel 2010 avrebbe raggiunto gli 86 milioni di abitanti. L’Egitto è il più grande importatore di grano del mondo e quindi è stato notevolmente colpito dall’aumento dei prezzi dello stesso, atteso pure che il 44% della popolazione vive con meno di 2 dollari al giorno, mentre una borghesia arrivista e avida, ha scritto non più tardi del 15 marzo Gilbert Achcar, professore alla scuola di studi orientali ed africani dell’Università di Londra, su Le Monde diplomatique, fa mostra di un lusso come quello dei potenti delle monarchie petrolifere del Golfo.

La crisi economica globale del 2008 – 2010 ha colpito i settori dai quali l’Egitto trae i maggiori ricavi e cioè quelli orientati all’esportazione – petrolio e derivati, gas naturale, ferro ed acciaio, prodotti chimici, materiale elettrico ed elettronico – e al turismo, oltre alla riduzione degli introiti derivanti dai diritti di transito nel canale di Suez. A ciò va aggiunto l’alto debito pubblico e quelli accesi con il FMI e la BM per un complessivo debito estero di 32.616 milioni di dollari alla fine del 2008. L’alto tasso di disoccupazione pur in presenza di tassi annui di sviluppo dell’ordine del 5 e 6% raggiunge il 10% della popolazione attiva. Tuttavia, tra i giovani, che costituiscono la fetta più grande della popolazione, il tasso di disoccupazione è di quasi il 35% (fonte Datastream, Credit Suisse).

Anche in Egitto, come già si è rilevato con la Tunisia, nonostante la crescita economica la distribuzione della ricchezza prodotta è ineguale, per cui la percentuale di persone che vive sotto il livello di povertà è alto. Di qui come già osservato in precedenza la constatazione che la spesa per il cibo rappresenta la voce più importante nei bilanci familiari.

L’alta percentuale di disoccupazione alimenta gli ingenti flussi migratori, i quali sono diretti soprattutto verso i paesi petroliferi arabi come l’Arabia Saudita, la Libia, l’Iraq e l’Europa.

E’ indubbio allora che piazza Tahrir, per i motivi che di seguito si rappresentano, è stata l’inizio e l’epilogo di un movimento in nuce.

Infatti già nel dicembre del 2006 gli operai della fabbrica tessile Ghazl Al-Mahallah avevano promosso un’ondata di proteste senza precedenti in tutto il paese. La determinazione mostrata dagli operai in quella lotta era pari alla forza di coinvolgimento prodotta nell’intero settore tessile. Di fatto da allora le lotte non si sono mai fermate. Da dicembre 2006 a maggio 2007 ci sono stati scioperi che hanno coinvolto migliaia di operai di altre fabbriche tessili. In particolare a Kafr el Dawwa (11.700 lavoratori), a Zelfia Textile Co. Ad Alessandria (6.000 scioperanti) ed alla fabbrica tessile di d’Abul Mukaren. Anche numerosi altri settori sono entrati in lotta: 3.000 operai in sciopero per due giorni alla industria di allevamento di pollami Cairo Poultry Co; 9.000 in un’industria molitoria a Gozeh insieme ai netturbini di questa stessa città; occupazione della Mansoura Spanish Garment Factory da parte di 300 operaie e sciopero dei trasporti del Cairo con blocco della linea il Cairo-Alessandria, sostenuto dai conducenti della metropolitana. Altre azioni di protesta ci sono state alla sede centrale delle poste, scioperi dei panettieri, nelle fabbriche di laterizi, degli impiegati del Canale di Suez, dei portuali, degli impiegati municipali, del personale ospedaliero. Eloquente a tale riguardo un comunicato emesso alla fine del mese di giungo 2007 da un sindacato americano, il quale segnalava che in Egitto nel 2006 c’erano stati 220 scioperi spontanei. Cifra largamente superata nel 2007.

Per render più chiaro il contesto nel quale agiva il movimento dei lavoratori egiziani bisogna dire che il sindacato era uno strumento dello Stato. Per esempio in risposta agli scioperi promossi dagli operai della fabbrica tessile pubblica di Ghazi Al-Mahalla il governo egiziano promise, a condizione che venissero fermate le agitazioni, di versare a ciascun dipendente l’equivalente di un mese e mezzo di paga. Ma il governo non tenne fede all’impegno versando solo in parte la somma pattuita ed a piccole rate. Questo comportamento ha rilanciò la collera operaia che decise di occupare la fabbrica. La direzione della fabbrica per tutta risposta e per rompere il movimento decretò una settimana di ferie in modo da far risultare illegale l’occupazione della fabbrica , minacciando anche l’intervento dell’esercito.

Alla fine come spesso accade tutti si rassomigliano. Infatti gli operai egiziani come tanti in altri paesi a cominciare dal nostro, nelle loro lotte hanno dovuto combattere anche contro gli esperti maestri nel sabotaggio: i sindacati. Anche in questi casi gli operai non si sono fatti manipolare. Significativo un passaggio di Liberation del 1°/1°/2007 che riportava: “Il rappresentante del sindacato ufficiale, controllato dallo Stato, venuto a chiedere ai suoi colleghi di interrompere lo sciopero, è all’ospedale, dopo essere stato pestato dagli operai in collera. Il sindacato è agli ordini dello Stato, vogliamo eleggere noi i nostri veri rappresentanti spiegano gli operai.”

Insomma se Internet è stato il tramite e l’altoparlante della rivolta democratica egiziana, il proletariato non è stato in silenzio né ha agito in modo codista, considerato pure che non ha avuto né ha un suo riferimento politico ed organizzativo.

La collocazione futuro cioè le scelte nello scacchiere mondiale dei paesi in rivolta naturalmente è il problema del futuro, con particolare o forse unico riguardo dell’Occidente a cominciare dagli USA.

La Tunisia di Abidin Ben Alì è stata un alleato fedele degli occidentali e le politiche economiche, applicate dal despota rimosso dai moti popolari, non hanno prodotto come già abbiamo visto lo sviluppo necessario affinché il paese progredisse in termini di reddito pro-capite e soprattutto di occupazione giovanile e non.

Di certo le aspirazioni delle componenti politicamente più determinate sono quelle di costruire un paese, che si affranchi dall’imperialismo americano e la manifestazione del 17 marzo tenutasi a Tunisi, in occasione della visita del segretario di Stato americano Hillary Clinton, non lasciano adito ad interpretazioni diverse. I tunisini vogliono costruire il loro futuro lontani dall’egemonia americana e ovviamente della Francia e degli altri paesi occidentali.

Un’altra variabile importantissima del futuro di questi paesi sarà senz’altro quella del ruolo e dell’influenza dei Fratelli Musulmani. Questa organizzazione islamica ha sempre inteso costruire una sorta di egemonia nei confronti delle società arabe dove ha operato ed opera. Allontanata e spesso anche perseguitata come nell’Egitto di Sadat, ma anche di Mubarak ed in Algeria, è decisa a giocare un ruolo importante nelle società dei paesi arabi.



  • la collocazione dell’Egitto di Mubarak
  • i trattati sottoscritti da Mubarak con Israele
  • la nuova politica estera dei paesi arabi
  • come influiranno le componenti islamiche nei futuri assetti dei paesi arabi
  • la Libia. La conferma di Gheddafi, i nuovi contratti con la Cina, l’India, il Brasile. Il ridimensionamento del ruolo dell’Italia ?
  • I moti nel Baherein, in Sudan e in Giordania.
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