venerdì 9 gennaio 2009

IL SOTTOFONDO DI LUCE E IL VORTICE OSCURO

di Sergio Piro

Per questa relazione, che spero riesca breve, ho tratto il primo materiale di ispirazione dal libro di Nora Puntillo,Grotte e caverne di Napoli,edizioni Newton Compton, oltre che dalla nostra frequentazione ed amicizia.
Dunque, nel suo libro Nora Puntillo parla del sottosuolo biologico di Napoli e io dovrei parlare del sottosuolo antropologico, cioè psicologico-collettivo, linguistico, doxico e ideologico, demologico, insomma culturale, di Napoli. E delineare questo quadro: Napoli come luogo oscuro e infernale sospeso fra luce e oscurità. Si tratta fin troppo palesemente di una metafora ma anche di una metafora storicamente limitata, una metafora di derivazione in parte psicoanalitica e in parte psico-sociologica.
E’ vero, Matilde Serao ha parlato del “ventre di Napoli”, ma lo ha fatto in un’accezione completamente diversa, con un’intenzionalità politica e sociale di altro tipo. Oppure bisognerebbe parlare di un sottosuolo pagano, di una vocazione miracolistica dei napoletani, dei miracoli di San Gennaro o dei fantasmi – che sono molti – che in genere stanno nei palazzi e nel sottosuolo? Si potrebbe fare tutto questo, ma non si tratta affatto di una specificità demologica e la specificità napoletana incontra male la ricerca scientifica perché si dissolve immediatamente, lascia più facilmente ai letterati, ai poeti, una descrizione immediata.
Io cercherò di seguire un percorso verso tale specificità; ma è un percorso che è un po’ indiretto, naturalmente. Cercherò anche di farlo senza entusiasmi nazionalistici perché molti napoletani sono sostenitori, e non certo Nora Puntillo, di una specificità napoletana proprio quasi di tipo razziale, quasi una napoletanità diversa.

Ma se si va a consultare la letteratura scientifica, e non parlo solo di quella antropologica, demologica e linguistica, linguistico-storica, tutto questo sfuma perché le caratteristiche napoletane sembrano disperdersi in dimensioni più larghe, che sono soprattutto quelle del meridione d’Italia, generalmente assunto. In questo meridione non è che non vi siano contraddizioni enormi ma sembrano, da 2500 anni a questa parte, essere più contraddizioni tra città e campagna, tra pianura e montagna, tra costa e interno – pensiamo alla grecità presente sulla costa, mentre rimane l’elemento italico, osco, sannitico nell’”osso montano” dell’Italia meridionale.

Allora, per questo mio intervento non mi sono limitato alle letture, ma mi sono riferito anche a ricerche personali o del gruppo di lavoro che faceva capo a me negli anni della riforma della psichiatria in Italia, perché in quel momento fu necessario fare una ricerca estremamente attenta sulle condizioni dell’assistenza psichiatrica nell’Italia meridionale. E anche in quel campo, stranamente, l’opposizione non è affatto tra Napoli, Benevento, Avellino o la Sicilia… l’opposizione è tra la pianura da un lato e, dall’altro, l’”osso montano” dell’Italia meridionale – secondo la bella espressione di Salvemini – cioè la zona magra, spenta, di montagna, dove l’economia è aspra e dove la gente è un po’ diversa.

E altrettanto io debbo dire del problema linguistico del quale, confesso, io sono un competente di striscio perché per motivi di ricerca scientifica mi sono dovuto molto, e anche per passione, occupare di problemi della lingua, oltre che del linguaggio. Viene dunque fuori il problema delle etimologie greche nel dialetto napoletano ma nemmeno questo, per nulla, è una specificità napoletana. E’ una specificità costiera, se si vuole, di tutta l’Italia meridionale, peninsulare – e della Sicilia forse ancor più, dove però fenici e arabi hanno ulteriormente complicato il problema.
Ora, io mi sento di dire questo sulla ‘grecità’ di Napoli: è bellissimo che Napoli, come tante parti costiere dell’Italia meridionale, abbia un infrastrato linguistico greco, un mesostrato molto forte di carattere dapprima osco-sannitico ma poi soprattutto latino in senso stretto e una serie di strati di diverso tipo; ma questo non autorizza alcune persone – che io conosco, che Nora Puntillo conosce, che non citiamo perché questo è un discorso che ha i caratteri di una conversazione e non di una relazione – a pensare a delle persistenze di una grecità culturale, ideologica, spirituale. Mi sembra estremamente azzardata, come voler trovare a Tunisi delle mentalità fenice; mi sembra improbabile.

Eppure esiste un’opposizione a Napoli - ve lo dirò partendo dall’esperienza di lavoro psichiatrico, un’esperienza concreta – di diversità tra un centro cittadino, che è smaliziato, tollerante, aperto al nuovo, estremamente comprensivo dei diversi, e una periferia (già nell’interno della città, ma più evidente fuori) che è di mentalità più dura, più conservatrice, volta a rafforzare le esclusioni. Tuttavia, io non credo questo si possa riportare a problemi della grecità quanto soprattutto a problemi che sono generalmente – a Napoli come a Marsiglia o come in altri porti – legati allo sviluppo di una civiltà cittadina molto isolata in un contado di tipo rustico; è la stessa differenza che oppose a lungo Atene al suo contado pre-attico o Cartagine alle vicinanze numide-berbere, Roma al moralismo dei latini e così via. Ma che tutto questo abbia superato i duemila anni mi sembra difficile; penso molto più che siano circostanze storiche che si sono determinate in seguito.

E allora, viste queste considerazioni per cui qualunque specificità di sottosuolo – inteso qui come sottosuolo antropologico-linguistico, di ideologie, di culture popolari – mi si perdeva tra le mani, mi sono chiesto: ma di che cosa parlerò mai a Parigi? Dovrò parlare a Parigi dei fantasmi di Napoli, dell’incombenza del soprannaturale in una gamma che va dagli incunaboli storici della città fino alla vita di tutti i giorni, al gioco del lotto? Io non credo che si stupirebbero in altre città costiere spagnole, francesi, ecc. A questo punto non avevo che una scelta per cercare di capire qualcosa che pur in qualche modo mi pareva di intuire: demetaforizzare il compito e andare nelle grotte e nelle caverne di Napoli – dove ero già stato vedendone un pezzo molto ristretto tanti anni fa – per vederle nuovamente, e in gran parte ex novo, dal vero. Ho scelto l’ingresso di San Gaetano.

Qui, debbo dire, avvenne qualcosa: nel momento in cui entrai lì dentro questo compito non mi parve più un’assurdità perché immediatamente mi sembrò invadere una consapevolezza: l’importanza che ebbero le grotte e le caverne di Napoli nella mia vita personale. Qui, mi dispiace, farò una piccola digressione di carattere autobiografico, cosa che normalmente non faccio. Si tratta di un elemento autobiografico che ho ordinato in questo modo: “venire a Napoli”, 1934 ; “temere Napoli”, 1934-41; “amare Napoli”, 1941-42; “lavorare a Napoli”, 1951-58/1969-2001.

Io ero arrivato a Napoli a 7 anni, nel 1934, e provenivo dalla Sardegna dove mi ero trasferito all’età di 20 giorni, dunque ero completamente sardo. La mia città era Olbia, che allora si chiamava Terranova Pausania ed era diversissima, non solo linguisticamente – perché lì si parlava sardo, che è una lingua e non un dialetto – ma anche nei costumi, nel modo di insegnare a scuola – per esempio a scuola mi insegnarono a dire “costì” e “costassù”, che io ogni tanto sfidando l’impopolarità e il ridicolo uso talora nel mio linguaggio – perché le insegnanti erano persone molto colte che insegnavano italiano e dovendo insegnarlo da lingua straniera per loro, sia pure bene lo insegnavano nella maggiore toscanità possibile…

Arrivato a Napoli, l’accettazione fu difficilissima perché questa città mi parve straordinariamente aggressiva, pericolosa, sfacciata. Io venivo da un ambiente molto più chiuso, molto più formale, molto più – allora – rispettoso di canoni di comportamento reciproci che erano già arretrati per l’epoca. Personalmente, in quel momento mi sentii gettato in un mondo disordinato – leggo due righe per usare proprio le parole che mi sono venute – “pieno di trappole, coloritissimo e mutevole, in cui la gente parlava uno strano idioma in cui la lingua e il dialetto si mescolavano continuamente in proporzioni variabili, passando da un italiano quasi puro, con qualche parola napoletana, all’estremo opposto di un napoletano quasi perfetto con qualche parola italiana che non riuscivano ad evitare”. Questa è una condizione linguistica nota per cui lingua e dialetto si definiscono, se hanno un senso, proprio solo da questo: dalla loro ‘mescolabilità’. Mentre le lingue sono tra loro separate per cui non si può parlare italo-sardo, si può benissimo parlare italo-napoletano, italo-materano, italo-perugino.

Quindi io vissi questi anni, dai 7 ai 14 anni, in questa situazione di ostilità e di speranza che qualche evento, anche la guerra, ci riportasse a vivere in Sardegna. Ma poi venne la guerra e caddero su Napoli 28mila bombe, cosa che non è una lamentazione per Napoli ma per la guerra in generale. Non fu eccezionale: Dresda ebbe anche di peggio, Hiroshima e Nagasaki peggio ancora, ma Napoli fu provata molto duramente. Allora, durante i bombardamenti aerei era facile, se tu eri per via, doverti rifugiare da qualche parte; dove io vivevo avevamo un rifugio notturno in cui si passarono ore lunghissime: ma non era questa l’esperienza. L’esperienza era quella del bombardamento diurno che ti coglieva di sorpresa e non c’era altro da fare che andare nel rifugio più vicino: in quella occasione incominciai a vedere le grotte e le caverne.

Le bombe arrivavano all’improvviso, si sentivano esplosioni, ululati e incominciai ad osservare la gente. E lì questa mia impressione di Napoli cambiò in maniera inizialmente sospesa poi radicale, perché cambiò il sentimento, non solo il giudizio – anzi quello prima ancora – perché lì io ebbi la tangibile visione di un popolo eroico e silenzioso, duro, che si organizzava, che rispettava il silenzio, rispettava regole di solidarietà che mai in superficie si sarebbe sognato di rispettare.
Al principio mi parve un contrasto; poi mi resi conto che solo apparentemente questo contrastava con l’espressione poetica, l’ironia scanzonata, il lirismo, l’individualismo, che solitamente si attribuiscono ai napoletani. Tutto ciò ha il suo punto massimo nel ’43, quando io vivevo fuori di Napoli ma presi tutti i peggiori bombardamenti perché un po’ ci venivo e un po’ ci scappavo; in quelle bombe si risolse anche la mia personale situazione non solo di accettazione di questa mia nuova patria, ma anche la vicenda tormentata per i ragazzi di quell’età di scelta definitiva tra fascismo e antifascismo e solo lì, in quei sotterranei, questa vicenda si poteva chiudere con una scelta di giustizia e di libertà.

Ecco, allora, c’è una specificità: qualcosa avranno pure questi sotterranei. E io vorrei riprendere l’esperienza psichiatrica, discorso meno personale e più formalizzabile, e ricordare appunto questo lavoro fatto a Napoli. E vorrei dire qui – in parte per vanità, in parte per necessaria informazione – che il lavoro psichiatrico non ha senso alcuno se non è contemporaneamente e in modo connaturato un lavoro di ricerca antropologica, di psicologia individuale e collettiva, di linguistica diacronica e di linguistica statistica, di antropologia culturale e di sociologia, di demologia in generale: non esistono le scienze umane separate le une dalle altre, tranne nelle loro articolazioni nomotetiche, di ricerca, di statistica.

L’esperienza di cui io voglio darvi qualche cenno nasce proprio così, dovete pensarla in manicomi del napoletano negli ultimi 40 anni, però sempre in situazioni che si vanno aprendo non verso forme di maggiore libertà e umanità dentro l’istituzione, ma verso il tentativo di mandar fuori la gente. Comincerei dal linguaggio schizofrenico. Vi racconto, allora, com’è un neologismo napoletano: il neologismo è una parola che i matti inventano in genere con grande capacità glottologica per designare cose usuali. I motivi per cui lo fanno sono molto meno ignobili di quanto si pensi. Un matto, uno intelligente ed arguto, mi disse: “la vita è tutto un quadriglio”. Come si fa sempre, gli chiesi di spiegarmi da dove venisse questa parola. Finalmente, dopo un discutere in cui venivano in mente tante cose, lui si ricordò di questa frase alla quale io non avevo pensato, che è l’espressione “lapis a quadriglie” che si usa nel dialetto napoletano per definire un qualche cosa di fisico molto intricato, molto confuso, ma soprattutto in senso metaforico per dire un grande imbroglio, un grande groviglio di sentimenti. Allora ci mettemmo assieme pazientemente a cercare l’etimologia. Ci lavorammo, ci rivedemmo, perché io ritenevo fosse importante per lui capire quello che stava lui stesso facendo: il senso, il significato, il valore culturale di quello che aveva fatto inventandosi una parola.

Allora, la cosa che venne fuori è questa espressione napoletana “lapis a quadriglie” ma soprattutto venne fuori che per molto tempo si è ritenuto che i “lapis a quadriglie” fossero delle matite che sono esistite alla fine dell’ ‘800 – io le ho avute anche – che erano bianche con una quadrettatura bianca e nera ostinatissima per cui a guardarle si abbagliava la vista. Un linguista napoletano mi diede una informazione estremamente valida: questa espressione compare anche nel ‘600, quando di matite così fatte non esistevano; allora ci rimettemmo al lavoro. La parola non è greca – con grande dispiacere di quelli che pensano tanto alla grecità di Napoli – è latina: i romani costruivano utilizzando l’opis o lapis, che poteva essere “simplex”, “reticulata, o “opus quadrellatum” oppure “lapis quadrellata”, che era difficilissima e complicatissima. Questa espressione latina “lapis quadrellata” attraversa i secoli sempre per indicare qualcosa di difficile, di complicato, di intricato e passa nel napoletano come “lapis ’a quadriglie”,, oppure, in una versione à la francese, “a quadriglié”: nel mio matto diventa “un quadriglio” per dire in maniera creativa e intelligente che la vita era per lui complicata.

Quando nel 1975 vado a dirigere un piccolo manicomio di Napoli che si chiamava Ospedale Psichiatrico del “Frullone” – Frullone è un toponimo – si inizia questa grande politica di dismissione: io l’ho chiuso nel ’99 con molto ritardo, mentre l’altro grande manicomio cittadino è tuttora aperto. La prima cosa è di dimettere le persone impropriamente ricoverate e scopriamo che ci sono 10 ragazzine minorenni che sono ricoverate tutte non perché pericolose per sé e per gli altri ma, come la legge italiana dettava – che si abolì per fortuna – perché di pubblico scandalo, cioè perché avevano di quelle che allora venivano ritenute irregolarità o eccessi nella condotta sessuale. Io chiamai tutte le madri – ne vennero 9 – spiegai loro la situazione, fu difficile far capire loro perché i padri rimasero fuori, e alla mia spiegazione la risposta fu di un tipo singolarissimo. Erano 9, 5 erano del centro cittadino di Napoli, dei quartieri Sanità e Quartieri Spagnoli, città antica e centro storico, e una di loro mi disse: “Direttore, ma voi state dicendo che noi le abbiamo ricoverate non perché sono pazze ma perché sono puttane?”. “Sì” – dissi io; “Allora ce le portiamo via”, “E – dissi – se i mariti protestano?” “No, non vi preoccupate, ce le portiamo via”. Le quattro che vivevano in zone che sono comune di Napoli o comuni immediatamente successivi dissero: “No, queste sono malate! Se voi le cacciate fuori noi vi denunciamo!”. Un’opposizione enorme. Fu clamoroso il fatto che 5 del centro di Napoli capirono il problema, lo espressero in termini rozzi ma capirono che era un problema femminile perché poi avrebbero loro difeso le figlie dall’aggressione del padre geloso ecc, mentre le altre 4… Allora voi dite: al centro di Napoli sono greci e fuori sono osco-sanniti? No, non è così, anche se io pensai che le 5 fossero greche mentre le altre 4 osco-sannite – i sanniti erano duri: ma è una proiezione storica, non è la verità.

I trans… Un giorno venne da me, mandata dall’Istituto di medicina legale, una donna – io dico – un transessuale il quale dopo molto tempo e con molto sacrificio era riuscito ad avere delle iniezioni di silicone per far venire un seno, o quello che sembrava tale; ma uno dei questi due seni era marcito e si era dovuto asportare. Il problema era appunto di riconoscere questo danno al pari e come – e così io attestai all’autorità giudiziaria – se una donna avesse perduto un seno, perché questa persona lo aveva desiderato in tutta la sua infanzia, nella sua adolescenza e infine, racimolati i soldi, ottenuto. Parlando della sua vita mi disse: “io vado a lavorare alle otto di sera – lavorare significa vestirsi, truccarsi e andare a fare la prostituta perché i trans, almeno in quel periodo, altro mestiere non potevano fare – però fino alle 8 di sera nel mio quartiere – che era sotto il Ponte della Sanità – la mattina faccio un po’ di spesa e di servizi per me, il pomeriggio vado a casa delle mie amiche e cuciamo, lavoriamo all’uncinetto, ci guardiamo i figli e la mia amica mi fa cucinare”.

L’esperienza era questa: la convivenza delle donne per bene, sposate, con un transessuale, che dovrebbe essere il massimo del rifiuto della mentalità conservatrice. Questa tolleranza del centro cittadino mi è stata confermata anche da altri ricercatori. La dismissione - cioè smantellamento - dei manicomi significò l’inizio della dimissione dei pazienti, dei malati mentali – io devo dire che il centro di Napoli accoglie ancora i malati mentali meglio di quanto abbiano fatto Milano e Torino, tanto per dare due esempi alternativi. A piazza Plebiscito, che è stata liberata dalle macchine, è stata resa una piazza turistica, importante ecc, c’è il porticato della chiesa di Paola: lì da un po’ di tempo alcune delle botteghe sono state date al locale Centro di Salute Mentale, che accoglie la “bottega della follia”, che però è molto frequentata anche da gente dei quartieri popolari vicini e questo permette anche, a quelli che di noi ritengono si debba continuare in questa via, di fare una prima, attiva azione di “self-help”, cioè di istigazione alle persone sofferenti psichiche di andare dagli psichiatri solo quando è strettamente necessario e invece di auto-organizzarsi in forma di associazioni, sia per la tutela dei loro diritti – comunque e dovunque anche nella civilissima Italia del post-Basaglia – sia per la possibilità di scegliere la cura che l’essere insieme determina, o anche la necessità dello specialista.

Sto per concludere ma, a questo punto, le idee sono piuttosto confuse perché si sono capovolti molti punti: intanto, nella mia vita personale i sotterranei di Napoli sono un qualche cosa che ha positività; poi, questa violenza cittadina enorme. Giorgio Bocca dice che i napoletani sono molto cattivi: io personalmente penso che sia una situazione molto diversa perché poi, in certe occasioni, i napoletani sono molto buoni. E forse il punto è questo: se andiamo a vedere più da vicino, risulta che anche la presenza di “bravi”, di “guappi”, di “malommi”, di camorristi, ecc. non è poi molto diversa da tutte le grandi città del mondo conosciuto; non c’è una situazione di imposizione molto maggiore, c’è magari qualche situazione di inefficienza più evidente.
Allora viene fuori un punto di diversità: il sottofondo forse non va cercato né nelle vicende di costume né nel modo in cui la gente appare, perché sono tutte definizioni che sfuggono. Qual è però la caratteristica che non sfugge alla storia, che non sfugge alla documentazione sociologica? Prendiamo la storia degli ultimi 200 anni (più si va lontano e più diventa difficile afferrare il concetto): c’è questa veemenza e questa intelligenza nelle ventate rivoluzionarie di Napoli e anche questa immediata, rapida, risposta di ricaduta nella più bieca reazione, in un opportunismo servile, in una rinuncia a tutti quegli ideali che sembrava fossero stati afferrati.

La Rivoluzione napoletana del 1799 sembra dare una parola veramente nuova e più avanzata rispetto a quel modello termidoriano francese che era diventato imperante e però dallo stesso popolo che lo aveva voluto, insieme con gli intellettuali napoletani, viene poi spazzato via, con un inneggiamento al ritorno del re e della Chiesa. I moti risorgimentali sono stati intensi ma anche estremamente labili: Garibaldi viene accolto in trionfo come un grande liberatore in piazza del Plebiscito – speriamo che non sia labile anche questa ultima liberazione della piazza! – viene votato a grandissima maggioranza e l’anno successivo si rimpiange apertamente nelle vie e nelle piazze di Napoli il re borbone e il suo regime clerico-forcaiolo. Le quattro giornate di Napoli sono state un trionfo, sono state reali, sono state vere – chiunque vi dica che non ci sono state significa solo che non c’era o che non gli piacevano – si è combattuto e dovunque i soldati si dovevano spogliare per venire su vestiti da civili.

Scendevano nelle grotte di Napoli: lì c’erano i cunicoli che hanno portato i partigiani durante le quattro giornate da un punto all’altro della città. Nel ’43 è successo tutto questo e nel ’46 ci sono stati i moti popolari di piazza a favore della monarchia sabauda, che era palesemente una monarchia estranea a Napoli: si ebbero sei morti, morti monarchici. Poi ci fu l’amministrazione di Achille Lauro che era un’amministrazione monarchica e fascista caratterizzata da corruzione e da scempi urbanistici. Nel ’56-‘57 una grande ondata progressista declina rapidamente.
L’opera di Antonio Bassolino negli ultimi dieci anni sembra restituire alla città non solo le strade, i monumenti, piazza del Plebiscito quanto la capacità di essere una città protagonista della sua storia e inserita comunque in una realtà europea, mondiale.

E tuttavia già il popolo sembra rincorrere altri idoli miracolistici e considerare queste cose che sono passate come dei segni effimeri o come dei segni che si possono svalutare. Per questo se poi io debbo esprimermi con voi – su un piano di convinzione personale, che può essere nutrita da dati scientifici, ma poi la convinzione personale appartiene a una prassi di umanità, non certamente all’aspetto scientifico – per me il sottosuolo infernale e oscuro di Napoli non è quello percorso dalle raffiche dei lazzaroni, dei guappi, dei malommi, della camorra, ma anche quello percorso da questo desiderio di sudditanza a comandanti, a potenti, a padroni, a sovrani, da spinte alla bigotteria e alla superstizione che ci sono o tornano, anche in quei punti civilissimi in cui i diversi sono accolti con comprensione.

E così la storia di Napoli sembra diventare una storia delle occasioni perdute. Maria de Luzzemberger ha scritto un libro, che uscirà tra pochi giorni, sui collegi popolari napoletani dal ‘700 ai nostri giorni. Le cronache della restaurazione borbonica nelle scuole napoletane sono altamente significative: Gioacchino Murat diede una sistemazione moderna e razionale, o per lo meno aveva iniziato quest’opera, per rispetto del sistema scolastico napoletano; vediamo quando torna il borbone cosa viene proposto: “La commissione formata di otto membri nella sua prima riunione dibatte il principio che si debbano istruire i ragazzi, non solo nelle prime cognizioni generali necessarie all’uso giornaliero della vita ma renderli buoni, onesti, obbedenti alle leggi del loro principe e stabilire per mezzo della prima educazione l’abitudine, i principi solidi che assicurino una volta la solidarietà di questo regno” e – commenta l’autrice – “l’istruzione è nuovamente affidata in modo completo agli ecclesiastici. La scuola maschile è collocata nella parrocchia o nei monasteri, nelle sagrestie delle chiese parrocchiali, nelle cappelle: tutte le scuole avranno come ispettore il parroco”.

Dunque, questi progressi di Napoli sembrano procedere a scatti ed essere superati rapidamente dalla reazione e dall’oscurantismo. Allora, se vogliamo considerare la possibilità di Napoli come un luogo oscuro e infernale, sospeso tra luce e oscurità, questa caratteristica non sembra né inerire ad un passato preistorico immaginato, né ad un’irridente persistenza pagana, né all’abbondanza di fantasmi, spettri, né ai tipi più caratteristici e nemmeno alla presenza della camorra o del contro-Stato armato che, come abbiamo detto, è di tutta l’area cittadina occidentale. Il buio sembra piuttosto essere di tipo politico e culturale, la sospensione fra luce e oscurità sembra essere piuttosto la vibrazione continua fra necessità di democrazia e di giustizia sociale e nostalgia della tirannide, con questo desiderio di potenti onnipotenti che siano miracolosi come San Gennaro.

Io a questo punto mi avvio alla chiusura per dirvi che secondo me è questo che fa di Napoli un luogo oscuro e infernale, sospeso tra luce e oscurità: le sue caverne e i suoi sotterranei hanno invece portato alla città materiale di costruzione, acquedotti buonissimi, ricoveri contro le bombe, basi di lotta per la libertà. Le caverne e le grotte di Napoli sono state spesso una risorsa grande e una benedizione; l’infrastrato scuro e infernale di Napoli è il vortice che attira la sua gente verso il passato e verso la rassegnazione.
Per questa città se c’è una luce è quella del futuro.

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