venerdì 9 gennaio 2009

IL FANTASMA DEL MANICOMIO


di Sergio Piro


(Liceo Classico Giovambattista Vico Napoli)

19 Maggio 1999

http://www.emsf.rai.it/grillo/trasmissioni.asp?d=430

PIRO: Mi chiamo Sergio Piro e sono uno psichiatra, benché questo termine non mi piaccia molto. Sono qui per discutere con Voi di argomenti che ci stanno tanto a cuore e che forse, meglio di me, potrà introdurre una scheda filmata.

"Io stessa sono stata col camicione di forza. Sapete cosa facevo? Siccome ero tanto mingherlina, la malattia mi aveva resa molto magra, cosa facevo? Quando mi avevano legato qui al collo - vi dico anche com'ero legata: qui al collo e ai polsi e qui alla vita - facevo tanto che sgattaiolavo come un serpentello - avete visto?- e lasciavo come uno spauracchio questa camiciola di forza vuota nel letto".

L'idea che i folli dovessero essere rinchiusi in luoghi speciali, cominciò ad avere grande diffusione nel XVII secolo, soprattutto tra il 1620 e il 1650, quando sorsero istituti che avevano lo scopo di internare quelli che ora noi chiameremmo "individui asociali": oziosi che gravavano sulle famiglie che erano incapaci di sfamarli, prostitute, vagabondi. Ma un evento importante ha luogo alla fine del secolo successivo: in Francia, in piena Rivoluzione Francese, nel 1792, Philippe Pinel diventa medico alla Salpêtrière, una di queste case di reclusione. Apre le celle e decide che non funzionerà più come una prigione, ma come un ospedale. Libera un gran numero di persone, condannate essenzialmente per motivi morali o sociali e trattiene nell'Ospedale quelli che riconosce come "malati di mente". Una legislazione apposita per gli ospedali pschiatrici verrà varata in Francia nel 1838, in Gran Bretagna nel 1844 e in Italia nel 1904. Nasce in questo modo la figura del "malato di mente". Ma non viene modificata la percezione della malattia mentale come esclusione da qualche ordine di legittimazione sociale, né viene abbandonato l'ideale repressivo e integrante. È invece a partire dagli anni Cinquanta che, con la scoperta degli psicofarmaci e la maturazione di un movimento culturale anti-istituzionale, il concetto di manicomio viene sottoposto a critica radicale. In Italia, Basaglia negò la validità terapeutica del manicomio-lager, fino al varo della legge 180 del 1978, con cui il manicomio fu abolito.

PIRO: Credo che questa scheda sia stata chiara, precisa, che ci abbia spiegato l'argomento. Non credo che una scheda porti ad una comprensione di qualcosa che è al di là della spiegazione. Per cui c'è un solo modo, poi, per arrivare ad una comprensione, che è quello che ci si parli, che Voi facciate delle domande, se l'argomento, come io credo, Vi interessa. Ecco che possiamo dunque aprire questo dibattito.

STUDENTESSA: Nell'introduzione al Suo libro: Parole di follia, Lei giudica anacronistico il termine: "malato mentale". Ma quale potrebbe essere un termine alternativo?

PIRO: Io credo che il fatto che noi non troviamo un termine alternativo sia una buonissima cosa. Dovunque le persone sono definite in maniera precisa si crea sempre violenza, tanto se si tratti di malati mentali tanto se si tratta di etnia, di razze o altro di questo genere, di sessi differenti. È chiaro: dobbiamo essere attenti a non farci intrappolare dalle parole. La categoria "malato mentale" è una trappola.

STUDENTESSA: Lei separa i nevrotici dagli psicotici, questi ultimi cosiddetti malati mentali. Ma così come i nevrotici sono consapevoli della propria nevrosi, gli psicotici sono consapevoli della propria psicosi?

PIRO: Ci sono tesi diverse su questo punto. Si può dire che dovunque ci sia anche grande sofferenza, anche apparente turbamento intenso delle varie attività psichiche della coerenza, della logica, il sentimento della sofferenza, ma è anche il sentimento della diversità negativa, non si estingua mai. Bisogna arrivare solo a condizioni gravemente menomative perché questa consapevolezza cada.

STUDENTE: "L'orizzonte epocale", quale è inteso come capacità di decodificazione, interazione e comprensione con il mondo in cui viviamo, è appannaggio delle persone "normali". Ma il malato mentale perde questo "orizzonte epocale"?

PIRO: Ma io credo che lo possa perdere o guadagnare in maniera esasperata. Non so se è chiaro. Poi, anche se lo sente in maniera molto forte, il senso dell'epoca o il senso negativo dell'epoca, da questo noi non possiamo dire che è un malato mentale. Forse in qualche cosa e per quel solo particolare sta meglio di noi.

STUDENTESSA: Nella scheda introduttiva abbiamo parlato di manicomio. Ma il manicomio ha mai avuto un intento curativo, cioè ha mai cercato di curare queste persone cosiddette "malate di mente", o ha solo avuto il compito di allontanarle dalla società?

PIRO: Questa risposta prenderebbe un po' di tempo e noi cercheremo di svolgerla con semplicità. Nel campo di questa condizione di sofferenza umana, che chiamiamo variamente "malattia mentale" od altro, molte cose son nate per guarire o per liberare e poi son diventate delle prigioni o dei fattori nocivi. L'abbiamo visto poco fa: tipicamente il manicomio, il "frenocomio" - come si diceva nelle prime versioni - nasce come antitesi all'ospedale generale, che era quest'enorme, orribile lazzaretto, dove venivano incatenati o gettati nelle celle ogni sorta di sofferenti, di emarginati, di vagabondi, di rachitici scrofolosi, prostitute e così via. Dico: in questo caso, quando Pinel li libera dalle catene e li porta in una sede solo loro, è un atto di liberazione autentico, vero. Infatti produce anche molte guarigioni inattese. Ma a quel punto, deve necessariamente chiudere le mura - necessariamente per i suoi tempi - chiudere le mura intorno, sostituire alla catena la camicia di forza, di stoffa, molto meno oppressiva, ma diventa anche quello, poi, un luogo di repressione, di staticità, di immobilità. Assumiamo come base che ciò che si muove, che cambia, che continuamente diviene, è terapeutico e liberatorio e tutto ciò che si ferma, che comprime, non lo è. Faccio questa digressione e poi Vi restituisco la parola: per esempio, perché l'adolescenza è la fase della vita che dovremmo conservare per sempre? Perché è quella in cui veramente l'uomo cambia, acquista, modifica gli schemi, fa una serie di rivoluzioni personali e partecipa anche a tante altre cose. Ecco, l'adolescenza come libertà è un'antitesi alla malattia mentale. Voglio dire ancora un'ultima cosa: quando tanti anni dopo si introdurranno gli psicofarmaci e si toglieranno le camicie di forza, sembrerà che questo sia un atto terapeutico e liberatorio. In realtà i pazienti, sotto psicofarmaci, sono bloccati, inibiti e Voi avete già in qualche modo considerato il film "Qualcuno volò dal nido del cuculo" e quindi avete già la risposta a questa mia disgressione.

STUDENTESSA: Nel 1904 fu varata in Italia una legge che istituì i primi ospedali psichiatrici. E ne furono costruiti più di cinquanta. Ma allora prima dell'apertura di questi ospedali, i cosiddetti "malati mentali" dove venivano curati? E perché si è sentito solo all'inizio del nostro secolo l'esigenza di aprire questi ospedali?

PIRO: Nel'ambito delle Nazioni, degli Stati che hanno poi costituito la Nazione italiana, v'erano già moltissimi manicomi. Il Regno delle Due Sicilie, per esempio, aveva un enorme manicomio ad Aversa che serviva quasi tutta la popolazione dell'Italia Meridionale peninsulare, ma vedete con che carattere di estensione. In Sicilia ce n'era un altro. Poi ce ne erano altri più piccoli disseminati. La legge del 1904, come quella francese del 1838 e quella inglese, sono delle razionalizzazioni dell'esistente che era nato dopo la Rivoluzione Francese, cioè è la regolamentazione degli ospedali psichiatrici. Intanto prendono il nome di "Ospedale Psichiatrico", in luogo del manicomio o frenocomio o altri modi pittoreschi che si usavano precedentemente. E dà un ordinamento a questi istituti, dà un quadro, delle regole che sono necessarie per ricoverare i pazienti, per dimetterli, per gestirli, chi può e chi non può essere ricoverato. Ecco perché sono importanti. Ma il manicomio esisteva prima. Nasce con la Rivoluzione Francese, migliorando la condizione di emarginazione ancor più grave dell'epoca precedente.

STUDENTESSA: Negli anni Cinquanta, come Lei ha già detto, sono stati scoperti i più importanti psicofarmaci. Ma questi psicofarmaci contribuivano ad isolare il malato oppure attenuavano realmente le sofferenze?

PIRO: Se Lei sta un po' ansiosa e si prende qualche goccia di Valium, va dove deve andare, ad una festa, a studiare e si sente meglio. Se lei di gocce di Valium ne prende il doppio o il triplo le viene sonno ed è infelice. Non so se è chiaro. Allora certamente, Lei che può scegliere, sceglierebbe di prendere poche gocce. E in questo caso lo psicofarmaco è una cosa meravigliosa. Se invece lo psicofarmaco fosse usato dai suoi familiari, dai professori di scuola per farla stare buona, per non rompere le scatole, per non creare turbamento, per non essere pericolosa per sé e per gli altri, per non farla essere di pubblico scandalo, lo scopo non è più quello esistenziale suo, ma è uno scopo sociale, in questo caso negativo, perché si ottiene la propria comodità, sacrificando la libertà altrui. Quindi lo psicofarmaco, come gran parte delle armi, tranne quelle belliche, che costruisce l'uomo, sono strumenti a doppia faccia: sono buoni se sono a servizio di una intenzionalità socialmente positiva, sono invece, secondo me, da considerare pessimi strumenti se servono a creare uno svantaggio di colui che li subisce a vantaggio di colui che li infligge. Le bombe e i missili, secondo me, non hanno l'uso buono, hanno solo quello pessimo.

STUDENTESSA: A partire dalla fine degli anni Sessanta, alcuni psichiatri, tra cui Basaglia, hanno cominciato a sperimentare una psichiatria alternativa, che ha portato poi nel '78 all'abolizione degli ospedali psichiatrici e all'istituzione delle strutture interne territoriali. Volevo chiederLe: in che tipo di contesto culturale è maturata questa nuova esigenza di cura e cosa è cambiato realmente nell'approccio alla malattia mentale ?

PIRO: Questa è un'altra risposta che sarebbe lunga, cercherò invece di rispondervi velocemente, anche perché il primissimo gruppo di psichiatri che volle fare questo esperimento era un gruppo piccolo e insieme a Basaglia, Pirella, Casagrande, Giovanni Jervis e qualch'altro, c'era anche chi Vi sta parlando in questo momento. Tanto che in Campania l'esperimento della Mater Domini di Nocera Superiore fu il secondo dopo quello di Gorizia. Negli anni Sessanta ci furono solo quello di Gorizia e quello nostro e che il fotografo Giuliano D'Alessandro ha fissato anche in certe immagini precise. Da questo punto di vista posso rispondere che il clima in cui nacque fu di una molteplice insofferenza, di una insofferenza grave per quello che era la psichiatria e non solo perché rinchiudeva i pazzi e li legava, ma anche per quello che era di avvilente sul piano culturale, scientifico e umano, di insofferenza per lo stato della società, di ribellione alla guerra del Vietnam, di riconsiderazione del senso che aveva la scuola: l'insegnamento, il ruolo dei giovani, il ruolo di subordinazione in cui erano tenuti. Io credo che da questo punto di vista, per quel momento, per il senso che ha quel momento, varrebbe la pena di vedere l'altra scheda filmata che abbiamo, che vi dà una precisa indicazione di quello che si andava facendo in quel periodo.

Siccome i difettosi desiderano la compagnia, perché sono personcine piccole piccole, ecco, hanno bisogno di diventare persone grandi, voi non siete persone grosse, ma siete persone grandi - avete capito? -, lui ha questo di lavoro, a un certo momento lui ha questo. Capito? Se nella società o se in nome della società, nell'Ospedale Civile per esempio, nell'Ospedale Civile, Voi siete, noi siamo di fronte a persone piccole, piccole, piccole, piccole, piccole - dal punto di psichico però, eh!, andiamo, non di muscolare - perché magari .... - piccole, piccole, piccole, da un punto di vista psichico e voi invece siete, da un punto di vista psichico, grandi, grandi, grandi, non grossi, non ... eccetera, Voi avete la possibilità di conferire a loro la loro grandezza, perché avendo ... il loro - supponiamo - è un processo di maturazione spontaneo!

PIRO: Vedete la grandissima maturità di giudizio di questa persona, che si esprime in una maniera palesemente eccentrica e che tuttavia mette a fuoco un qualcosa che ha sperimentato. La conosco molto bene, ma anche indipendentemente dal conoscere personalmente questa persona, che non so adesso né dove sia né se ci sia ancora, di fatto ci racconta quello che è importante: crescere interiormente, trasformarsi interiormente, contestare la grossezza fisica a favore della grossezza di qualcosa, di un valore che ci portiamo appresso. Allora, una cosa importantissima, per riprendere e concludere la domanda che m'era stata fatta precedentemente, è che noi scopriamo in quel periodo che la malattia mentale non è statica. Io ho studiato il linguaggio dei pazzi tutta la prima parte della mia vita e ho scoperto che è diverso se essi sono in manicomio o se essi sono fuori - e dico i pazzi per mantenere il linguaggio familiare ed è una designazione che essi stessi talora fanno per se stessi - dicevo che cambiano, sono diversi, che tirano fuori le risorse più incredibili. E dirò solo questo per poi riavviare le Vostre domande: gente avvilita, silenziosa, con la testa china, che passava i giorni gettata in un corridoio, se Voi iniziavate un'assemblea di reparto, un'assemblea di tutto l'ospedale, rialzavano la testa, incominciavano a parlare e, quando chiedevano la parola non è per dire una delle loro follie, ma per chiedere: "Ma perché non miglioriamo il vitto? Ma perché non cominciamo a uscire fuori?". E questo lo facevano insieme. Ecco che allora si creava una coscienza. Allora io vorrei che fosse chiaro che la condizione di sofferenza che noi chiamiamo "malattia mentale", "nevrosi" o con altri termini brutti di gergo, è una condizione, come tutte quelle umane, trasformabili, anzi, che dalla trasformazione trae modo di superamento di se stessa.

STUDENTESSA: Come mai la Legge Basaglia non è stata ancora attuata del tutto, dato che comunque negli ospedali psichiatrici vi sono ancora dei "malati di mente"?

PIRO: Una domanda di altissima complessità anche questa e anche qui cerchiamo delle risposte e punti fermi. Innanzi tutto quella che si chiama impropriamente Legge Basaglia, perché Basaglia non l'avrebbe mai fatta così, l'avrebbe fatta un po' meglio, l'ha fatta il Parlamento della Repubblica Italiana in una situazione abbastanza confusa. Innanzitutto la Legge Basaglia è una legge-quadro che demanda alle regioni le leggi di applicazione. Allora Vi sarà chiaro che una legge-quadro dà degli indirizzamenti di larga massima e le varie Regioni poi debbono fare le loro leggi. Ora la Legge Basaglia è una legge molto tenue sul piano delle indicazioni centrali. Quindi le varie Regioni hanno fatto cose differenti. In secondo luogo questa trasformazione ha avuto una serie di resistenze enormi, a parte quelle culturali, ideologiche, politiche, ma anche resistenze professionali. Sono stati smossi moltissimi interessi. Il manicomio era una cosa costosissima. Dunque c'è stato un rallentamento gravissimo delle operazioni, tanto che, dopo che il Ministro della Sanità dispose utilizzando la legge finanziaria del '94 - di imporre finalmente la chiusura degli ospedali psichiatrici, il tempo assegnato era due anni e anche nelle sedi dove si è usata la massima buona volontà non si è ancora arrivati in porto, anche se in tante sedi i manicomi sono stati fortunatamente chiusi.

STUDENTESSA: Ultimamente abbiamo avuto modo di visitare una di quelle strutture territoriali in cui sono stati trasferiti i "malati di mente", in seguito alla chiusura degli ospedali psichiatrici e abbiamo notato un certo miglioramento nel loro trattamento, cioè vengono inseriti in un ambiente più familiare. Lei crede che questo miglioramento sia avvertito da tutti? Oppure ci sono casi in cui il cambiamento del contesto sociale non viene neanche avvertito, casi molto gravi?

PIRO: Intanto ci sono alcune persone che non sono nelle condizioni di rendersene conto, ma sono una piccola minoranza. La massima parte si rende benissimo conto e, in genere, come dicevo prima per il passaggio dal vecchio ospedale generale o dal carcere al manicomio, c'è un miglioramento nel cambiamento. Ma se quelle strutture diventano statiche, se ricadono dentro se stesse, com'era il manicomio, si chiudono all'interno e non sono trampolini di lancio verso la vita, verso la società, verso la riappropriazione del quartiere, degli spazi verdi, se non è questo, se non c'è un'intensa opera di riabilitazione, prima nel senso di discussione, dibattito, spettacolo e così via, ma poi soprattutto di rilancio per i più giovani verso il lavoro e, per i più anziani, verso un tipo di comunità diversa da quella della casa, noi avremo ricostruito in brevissimo tempo un altro manicomio. Il manicomio, tenete conto, ce l'abbiamo noi nella testa, cioè nella società, nelle cose che facciamo. Quel manicomio lì è un concentrato di tutto questo. Ma se Voi li chiudete in una casa per venti posti, è più scomoda che un manicomio, dove almeno ci sono almeno degli spazi aperti.

STUDENTESSA: Oggi la legge prevede l'inserimento del malato nella famiglia e nella società. Io vorrei sapere da Lei se questo è sempre possibile e che garanzie ci sono per il malato e per il contesto in cui vive ?

PIRO: Ma diciamo che grosso modo si tratta di slogan di semplificazione. Teniamo conto che inserire le persone nella famiglia significa pur sempre inserirli in qualcosa che molte volte è nocivo. Teniamo conto che dirlo così, come Lei lo ha detto, certamente nel migliore dei modi, però diventerebbe uno slogan pericolosissimo e le associazioni dei familiari ci fanno molta paura, per questo tentativo di rimangiarsi il malato come un figlio piccolo. Io considero in genere la famiglia come un fatto pericoloso in sé, da guardare con attenzione e da cercare di liberarsene il prima possibile. Allora, se reinserimento in famiglia significa ripresa di un rapporto dialettico con la famiglia, quello che i giovani, gli adolescenti dovrebbero avere e gli viene tante volte negato, se significa questo va bene, altrimenti è bene che se ne guardino bene dal reinserirsi in famiglia. Tante volte il problema è di reinserirsi nella società. Ma in una società dove le nostre strade sono continuamente percorse da una schiera di disoccupati, che lo sono e lo saranno per molto tempo, questo reinserimento nella società rischia di diventare l'inserimento in un circolo parrocchiale oppure in un luogo di buona accoglienza. Il reinserimento principale è nel lavoro e questo è negato ai pazzi, come ai sani, in questo momento storico, dalle parti nostre soprattutto. E certamente per i pazienti, per i pazienti psichiatrici, che sono passati dal manicomio al territorio, dovrebbero valere le stesse attenzioni, la stessa intensa cura che si dovrebbe avere per dare lavoro alle persone che sono disoccupate e alle persone che arrivano da altre culture, da altri climi, agli emigrati. Non so se è chiaro. Siamo molto lontani dal potere affrontare seriamente questo problema del reinserimento della società, se inteso in senso totale, altrimenti tutto il resto che si fa è un surrogato.

STUDENTESSA: A proposito del linguaggio, di cui Lei prima parlava, nel Suo libro accenna al linguaggio "schizofrasico", ovvero la sovrapposizione apparente di termini che non hanno un significato linguistico, ma, come Lei stesso afferma, hanno un senso comunicativo. Può spiegarci meglio questa Sua affermazione ?

PIRO: In termini molto semplici, è questo che, fino a qualche tempo fa, fino, in genere, al periodo subito successivo alla Seconda Guerra Mondiale, gli psichiatri pensavano che se uno diceva frasi incomprensibili questo fosse il sintomo di una malattia, come la tosse se abbiamo la bronchite, e non si preoccupavano minimamente di vedere se si capiva qualcosa di quello che dicevano. Alcuni invece invece inseguivano quest'ipotesi, ma non erano mai riusciti a dimostrare che quello fosse un linguaggio difficile e incomprensibile, ma un linguaggio. Questo tentativo si fa dopo la Seconda Guerra Mondiale; personalmente ho incominciato nel 1951 a decifrare il linguaggio dei "malati mentali" come se fosse una lingua straniera, cioè a usare i metodi della glottologia, i metodi della linguistica sincronica, per capire. Tutti i linguaggi, anche i più assurdi, anche i più strampalati, hanno dietro di sé una storia, hanno, attorno a sé, una società e hanno un significato e dipende da noi se questo significato lo vogliamo cogliere oppure no. E questo è stato per me la via per sciogliere i matti, perché, se Voi pensate che quello che è di fronte a Voi non ha un sintomo come la tosse, ma sta parlando, Voi il primo passo che fate, è cercare di capirlo e di decifrarlo, poi, se ha la camicia di forza, gliela togliete.

STUDENTESSA: Nel Suo libro parla di rapporto sintelico. Ma qual'è la differenza tra rapporto sintelico e rapporto terapeutico tradizionale?

PIRO: Forse sarebbe meglio dire rapporto e non rapporto, perché tutti i rapporti sono "sintelici" quando si instaurano veramente. Se vogliamo fare una critica al rapporto terapeutico tradizionale, però stando attenti a non buttar via con questa formula tante cose positive ed una storia importante della ricerca, il rapporto tradizionale sembra isterilirsi in formule di interpretazione, di decifrazione, di un presente o di un passato, sepolto nella nostra archeologia psichica. Il rapporto sintelico è mirato al futuro. Voi studiate il greco: sun telos significa insieme per uno scopo. Il rapporto sintelico è quello che ha una squadra di calcio - di dilettanti per piacere, perché i professionisti hanno un altro scopo, che è quello di vincere la partita - quello che c'è in un gruppo di amici che si vuol divertire e nel divertirsi crea un qualche cosa; il rapporto sintelico è questa percezione netta, che la nostra vita si svolga verso il futuro, che non c'è il passato se non nelle nebbie sepolte, non c'è un presente, perché ci sfugge, perché ci sfugge. E che l'unica cosa che veramente ci attrae, ci fa stare insieme è il futuro. E appunto il rapporto sintelico è la passione di un viaggio comune. Quello che stiamo facendo ora, per il breve tempo che abbiamo da stare insieme, è un viaggio in comune, perciò è un rapporto sintelico.

STUDENTESSA: Ma questo tipo di rapporto non potrebbe creare dipendenza?

PIRO: Non esiste rapporto che non sia dipendenza, dobbiamo stare attenti alla dipendenza. Noi dipendiamo da ogni cosa nell'Universo. Ogni vita dipende da tutte le altre vite che sono intorno, oltre che da tante altre vite che sono più lontane. Ma questa è una dipendenza ed è una cosa buona. C'è poi l'iperdipendenza, quando il figlio si attacca solo alla madre, quando il drogato vive solo per la droga e in tutte quelle forme in cui la molteplicità in cui noi siamo - che è l'espressione con cui chiamiamo la complessità degli eventi del mondo - si riduce invece a unicità. Quelle sono le prigioni. Allora io vorrei dire che un rapporto sintelico è sempre un rapporto plurale. Noi facciamo la terapia, per esempio, per le cose che dice Lei, cercando di non essere un curante ed un curato. Abbiamo il gruppo, ma ci sono più curanti, oppure siamo due o tre curanti con una persona sola, cioè cerchiamo di evitare il rapporto uno a uno perché è come il rapporto con l’entità suprema. Il rapporto invece con due curanti sono il papà e la mamma. Se sono tre sono altre forme di cose. Preferiamo che i curanti cambino.

STUDENTE: Come mai ha portato quell'oggetto? Mi sembra di vedere una siringa.

PIRO: Io non amo molto le siringhe, anche avendo dichiarato che gli psicofarmaci sono utili, se servono a capire, se servono a vivere. Ho portato il lettino dello psicanalista e la siringa, che sono i due modi tradizionali con cui la psichiatria si è mossa, diciamo nella prima parte del XX secolo, fino appunto alla Legge180 o, in genere, nel resto del mondo, al movimento psichiatrico alternativo. Cioè la siringa, che esprime il riportare tutto ad accadimenti fisici naturali. Il soffrire è espressione di una disfunzione del nostro corpo, dei nostri geni, dei nostri enzimi, delle nostre cose. E l'altro, quello sul lettino, dice: tutto quello che accade deriva dal fatto che abbiamo avuto problemi individuali passati. Il lettino significa individuale e passato, perché poi Voi lo sapete che tutto quello che ci accade nella vita ci può fare soffrire. Allora questo è un modo per farVi vedere degli oggetti che abbiamo usato, ma anche additarVene il pericolo, il pericolo delle unilateralizzazioni o il pericolo dell'eternità. Il rimedio è il libro. Non perché io voglia dire che studiare - se Voi studiate delle cose antiquate, inutili, terrorizzanti, allora i libri è meglio non vederli proprio - ma il libro, se è inteso come Cultura, come Comunicazione, come voglia di superamento, diventa esperienza liberatoria. Con la Legge 180 e con tutto quello che è preceduto, i poli diventano due. Ma io non posso portare l'oggetto del terzo polo. Perché un polo è la siringa, un polo è il lettino, il terzo polo siamo noi. Non può essere portato come esempio. Volete un oggetto della terza via della psichiatria? Eccolo qua: siamo noi.

STUDENTESSA: Quale ruolo terapeutico può avere la drammatizzazione?

PIRO: Ritengo che la teatralità come la liricità e l'oratorietà siano componenti ineliminabili della vita comune, della collettività umana. Anzi io credo che la civiltà sia stata creata su quello. Quindi fondamentalmente credo che il teatro non è un'arte creata dagli esseri umani, ma una manifestazione della vita collettiva. Come il suonare, come la musica, come il ritmo inizialmente, poi il ritmo e la melodia ed il ritmo e il canto, e così via. Quindi ritornare a questo significa rilanciare la nostra vita ripartendo da origini che ci permettano appunto di andare verso il futuro. Per me ha un valore fondamentale, per cui in quello che io chiamo "scuola sperimentale", che si fa dove io lavoro, tra le varie forme di esercitazione gli allievi fanno anche drammatizzazione, in forme nuove, che qui non possiamo ora proporre.

STUDENTESSA: Lei crede che sia stato un caso che in una società borghese siano stati proprio gli emarginati, come ad esempio le prostitute, ad essere rinchiusi in questi manicomi e quindi proprio quelli che si differenziavano di più dalla società perbenista che i borghesi si erano prefissi di avere?

PIRO: No, non era assolutamente un caso. È una ferma volontà di quell'assetto sociale. E non a caso la segregazione dei matti nasce nel Rinascimento e nell'epoca delle riforme, della Riforma Protestante e della Controriforma, cioè quando la società borghese incomincia a organizzare le sue regole, le sue discipline, i suoi valori. E da tutto questo gli emarginati sono sempre più esclusi. In Germania si fa una nave che va girando per i vari canali e fiumi della Germania, che era già una rete fluviale ricca. Li mettono lì su e fanno la nave dei folli. Altrove fanno i lazzaretti, gli ospedali generali e trovano tutte le forme per allontanarli, finché col migliorare della tecnica, col farsi la borghesia classe dominante con le rivoluzioni borghesi del 1600 in Inghilterra, del 1700 in Francia e negli Stati Uniti, col farsi questo la cosa viene regolarizzata e vestita di scienza. Attenzione su questo punto. È proprio tipico di questo assetto, nel quale noi siamo vissuti, della Rivoluzione Industriale, della borghesia al comando, del superamento, è quello di aver bisogno di dare veste scientifica a tutte le razionalizzazioni statali.

STUDENTESSA: Decretano quindi folle tutto quello che intralciava il loro cammino?

PIRO: Questo agli estremi naturalmente, perché le società mobili, come sono le società nate con la rivoluzione borghese di quegli anni, creano continuamente antitesi al loro interno. Ecco, possiamo vedere l'esempio della società americana, che ci sembra rigida e spietata per il dominio stretto e rigoroso del profitto e del capitale, che però crea il Movimento delle Donne, il Movimento delle Pantere Nere, quindi di liberazione degli afro-americani, che è il Movimento Studentesco, prima che in Europa, ecco questi flussi liberatori che ci vengono da un paese, che invece, per assetto economico, strutturale, sembrerebbe conservatore, rigido, disposto a bombardare dovunque. Ma forse questa caratteristica non l'ha persa.

STUDENTE: Mi sono fatto l'idea che il comportamento del folle è uno dei tanti tipi di comportamento possibili, solo che poco convenzionale e meno diffuso. È giusto?

PIRO: Come tutte le semplificazioni rischia di poter essere applicato solo in un certo numero di casi, però in questo caso è un'ipotesi forte e può essere applicata in moltissimi casi. Ecco, ci limitiamo a dire questo: voglio dire che certamente i comportamenti sono giudicati tali da meritare il manicomio - parlo per lo meno fino a vent'anni fa - o no, a secondo del tipo di disturbo sociale che producono. Voglio dire i maschi venivano ricoverati molto più che le donne, perché le donne, anche se gravemente sofferenti, erano in grado di fare i servizi di casa - non so se è chiaro - nella società proprio primordiale. Poi c'è stata una fase del ritorno delle donne al manicomio. Quando è stato? Quando le donne hanno incominciato a muoversi - questo è stato soprattutto a cavallo della Seconda Guerra Mondiale, un po' prima e un po' dopo - a muoversi per la riconquista della loro libertà, anche di movimento, prima di tutto di uscire sole, di avere amicizie, eccetera. Non parliamo ancora di libertà sessuale, ma era quello fondamentalmente. Allora sono messe nuovamente in manicomio. Quindi sono d'accordo con Lei per dire che, grosso modo, uno può fare le peggiori stralunatezze, ma se non rompe le scatole ai potenti o ai familiari ricchi o alle cose così, non viene ricoverato, non viene chiamato pazzo.

STUDENTESSA: Abbiamo scelto come esempio un noto film: "Qualcuno volò sul nido del cuculo". Questo film vuol essere una vera e propria denuncia verso il sistema manicomiale, verso questo potere repressivo che assumeva il personale medico nei confronti dei degenti. E in alcuni casi, questo potere, riusciva a generare nei pazienti una vera e propria psicosi mentale, oppure ad aggravare le loro condizioni mentali. Lei è d'accordo con la nostra scelta?

PIRO: Sono d'accordo con il film e d'accordo con la Vostra scelta. Fondamentalmente abbiamo lì una dimostrazione di quello che prima si accennava, che quello che viene pensato come terapia, o subito o dopo qualche tempo, può rivelarsi come uno strumento di distruzione. Quello che è invece importante è mantenere sempre, su quello che si fa, la comprensione, il contatto con gli altri, il rapporto. Per questo io penso che quello che abbiamo fatto noi oggi è un contributo forte alla lotta contro la sofferenza psichica e contro le malattie mentali.

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